Inverno alla Grand Central – Lee Stringer

inverno-alla-grand-central-d174Raymond Carver narrava la vita di quell’America senza lustrini, talmente ordinaria da essere anonima ed impalpabile. Quell’America invisibile che il sistema tende a trascurare per aver commesso il reato più grave che si possa compiere in quel Paese di grandi opportunità. Non avercela fatta. Aver mancato il sogno americano, essere sfuggito all’indice puntato dello zio Sam. Caduto dal piedistallo del progresso e del profitto. Lee Stringer è fra questi. Dopo aver perso il lavoro nel settore del marketing, prosciugato il conto in banca e ricevuto una notifica di sfratto, è costretto a trovarsi un posto nei sotterranei della Grand Central Station di New York. Per sopravvivere raccoglie vuoti che rende ai supermercati. Un vuoto, un nichelino. Il denaro gli serve per mangiare, ma soprattutto per procurarsi il crack da fumare nella solitudine e beatitudine del suo buco sottoterra. Il giorno è fatto degli espedienti per rimanere vivo e non morire di fame, freddo, malattia. In più, Lee appartiene ad una categoria ancora più disgraziata. E’ nero. Nero, povero e senzatetto. Nelle notti confuse dal crack, dal caldo torrido d’estate, dal freddo glaciale d’inverno – quando la polizia non compie le sue arbitrarie incursioni – trova un’ancora precipitata da chissà dove per tenerlo saldo alla terra e svelargli il talento che lo salva.
Nella tasca ha una matita che gli serve per prepararsi da fumare. La porta sempre con sé per questo scopo e anche perché è una matita e alla polizia non desta sospetti. Però un giorno che si trova senza niente da fare né da fumare, Lee realizza che quello è molto più che uno strumento per spingere i filtri. Serve per scrivere e da qualche parte, nel suo buco sottoterra alla Grand Central, ci deve essere un quaderno. Lee ci si aggrappa, alla matita, al quaderno. Comincia a scrivere. Non smetterà più. […]c’erano quattro cose che facevo ogni giorno. Rimediare dei soldi, procurarmi un po’ di roba, andare fuori di testa e scrivere. E col tempo è andata a finire che ho mollato le prime tre.

E’ così, grazie a quella matita, ai primi pezzi pubblicato su Street News – giornale scritto e distribuito dai senzatetto – e alla raccolta Inverno alla Grand Central (Nottetempo, 2008, nella traduzione di Delfina Vezzoli), veniamo a conoscenza della quotidianità di un senzatetto nel Paese più ricco e opulento dell’universo. Con una disincantata narrazione urbana Stringer ci mostra un sistema abominevole, assolutamente incapace di rispondere con strumenti sociali e politici alla povertà più estrema di milioni di cittadini statunitensi. Lo spirito da reporter illumina di luce critica la burocrazia ipocrita dei centri di accoglienza, ricovero e distribuzione di beni di prima necessità. Di fatto, si tratta di enormi sartorie che mettono pezze più piccole dello sbrago e che offrono mero assistenzialismo per cibo, vestiario, prima igiene. Non sono previste strutture sanitarie che si occupino della salute di chi vive sulla strada, né contemplati programmi di prevenzione, di reinserimento, percorsi che portino i senzatetto a rifarsi una vita o centri di ascolto. Raccontando la sua vicenda tra gli anni Ottanta e Novanta, Stringer porta alla ribalta la condizione di una tonnellata umana fastidiosa coi suoi stracci, la puzza, i furti, i cartoni; una popolazione dimenticata, arbitrariamente perseguitata dalla polizia, ostinatamente ignorata dal resto della gente. A pari dell’Uomo invisibile di Ellison, eravamo svaniti in quella parte del paesaggio che si rifiutava di sostenere il Sogno Americano. E che pochi vogliono vedere. Non-persone in una vuota terra di nessuno. Quella di Stringer non è una bella storia fine a se stessa, ma una analisi acuta, priva di pietismo di una parte sommersa di universo; delle problematiche economiche, sociali, politiche che contribuiscono a crearla e alimentarla. Racconta storie di donne e di uomini che spesso non hanno la forza di mantenere alta la propria dignità e di altri che pur di non perderla si fanno terra bruciata intorno, si attirano addosso le antipatie di quelli coi quali condividono la condizione, rinunciano al furto, fanno di tutto per rendersi presentabili. Resistono.
lee_stringerSpecularmente, il suo sguardo attento, la sua testimonianza, mettono a fuoco la serie di ingiustizie subite per il fatto di contare zero nel loro Paese: la corruzione della polizia (arrestare un senzatetto di notte con qualsiasi imputazione vale come uno straordinario e quindi è pagato in quanto tale), i processi grotteschi, il pregiudizio della giustizia. Quando si tratta di giustizia, quella che ti fa rinchiudere è diversa da quella che trovi dentro. Personalmente, mi piacerebbe vedere tutti i giudici e i pubblici ministeri condannati a passare un po’ di tempo in prigione. Non per i crimini che commettono in tribunale. Perché quelli sono frutto dell’ignoranza. ed è precisamente per questo che un periodo in prigione dovrebbe far parte del loro tirocinio. Così forse arriverebbero a sapere quello che non sanno di non sapere. Fateli sedere anonimi e disprezzati nelle celle di detenzione, fateli passare sotto il torchio dei loro processi fino a strizzare fuori dalle loro ipocrite convinzioni ogni certezza. E fateli andare a sbattere contro la saggia verità che ogni ladro di polli conosce istintivamente, e cioè che la vera giustizia è sempre poetica.
C’è poi il perbenismo sostenuto, la carità pelosa dei passanti, lo sdegno dei fortunati per gli straccioni che dormono e copulano sulle panchine, che si lavano i piedi nei lavandini dei cessi pubblici, che bivaccano tutto il giorno nell’indolenza, contraltare delle sclerotiche e sterili politiche restrittive che non risolvono i problemi della gente di strada. Semplicemente li nascondono. Qualunque cosa sia necessaria per alleviare la situazione disperata della gente di strada, non dovrebbe essere messa in atto a spese del benessere di altri. E fin qui siamo tutti d’accordo. D’altro canto, le rivendicazioni sul territorio non dovrebbero essere perseguite in modo così cieco e assoluto. E nei periodi di crisi, i giornalisti e i leader di comunità in particolare hanno la precisa responsabilità di fare appello alla ragione nel modo più deciso e risoluto possibile. Nella nostra angoscia per una città che sembra sul punto di crollarci addosso, la ragione ci dice che serrare le fila porta solo a una frammentazione maggiore. La ragione ci avverte che falliremo nel nostro istinto di proteggere noi stessi se non ci sforziamo di proteggere tutti quanti.

Stringer parla di questioni concrete con grande prossimità, non si lascia prendere dal romanticismo né da un vittimismo che falsificherebbe ed altererebbe la sua ottica privilegiata. Forma una scrittura solida e schietta, ma tiene tutto – fatti e opinioni – sotto una dimensione che li contiene senza soluzione di continuità: la dimensione spirituale, quella che detta il ritmo all’alterità, al senso della giustizia, all’equanimità, al valore della collettività e del bene comune all’interno del quale è compreso l’altro da me, a prescindere dalla sua condizione. Ed è questa, alla fine, la cifra vincente di Stringer, uno che è arrivato all’inferno ed è risalito impugnando una matita per raccontarlo.
In diversa misura, vogliamo tutti più o meno le stesse cose dalla vita: amore, rispetto, felicità, il senso di equità e giustizia, il senso del benessere, il senso di uno scopo e di un valore, e la sensazione di essere collegati a qualcosa di concreto, durevole e sicuro. e, come è certo che nessuno di noi otterrà quella che considera la fetta di torta che gli spetta di diritto, è anche certo che noi tutti facciamo fatica ad accettare questa dura realtà. Si chiama condizione umana. La capacità di devozione assoluta e irremovibile a qualcosa – comune a quanti potremmo erroneamente considerare poco di buono – potrebbe essere, se diretta alla crescita spirituale, l’elemento essenziale che presumiamo manchi per natura agli ubriaconi e ai drogati. No, droga e alcol non sono la strada per il paradiso. Ma la naturale inclinazione dell’uomo verso la spiritualità è stata surclassata dall’opinione comune che sia più importante occuparsi di cose fisiche e materiali. E nella crescente frenesia, nel guazzabuglio della vita moderna, ci vuole spesso una botta estremamente violenta – non diversa dai disastri causati dalla dipendenza attiva – per tirarcene fuori.[…] la religione è per gente che ha paura dell’inferno, la spiritualità è per quelli che ci sono già stati.

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