Francesca Matteoni, Cristina Babino, Laura Di Corcia – Incantamenti

Poesia è traccia antica che origina da radici arcane. L’origine impredicibile scaturisce come verso che tenta il disegno di un volto. Fosse anche l’autoritratto di un fianco che accoglie e sopporta o la pelliccia muschiata di creatura informata di bosco.

Non c’è divaricazione tra l’una e l’altra, tra l’ancestralità dell’occhio di bestia e la mitocondrialità del ventre di umana, ché entrambe intrecciano incantamenti, opere del verbo prima del verbo; stare preverbale sulla soglia tra l’Ora e l’Oltre in sottinteso fluire di dialogo col mondo. Per terra e sottoterra, nel macro e nel microcosmo; dove spande acqua, dove radica la noce, dove lo spazio basta a un occhio per posarsi carico di riti e profezie.

Poesia è incantamento che può sottendere un gesto di consapevolezza dell’altro, chiunque esso sia, che rigetta politicamente il potere contenitivo della società a favore dell’ascolto delle lingue – scrive Francesca Matteoni nell’introduzione.

È l’ordine spezzato, capovolto e ricomposto in un Tutto che si tiene dentro un Uno incolto, apolide, cosmopolita, potenziale creativo della Terra, delle marginalità, dello sfrido umano con cittadinanza planetaria.

Poesia è spazio liberante, liberato, liberatorio del selvatico caduco, fallimentare, esplorativo e generativo contro lo spazio selettivo, domesticato, culturizzato. È orizzonte desovrastrutturato in cui riconoscersi una sola cosa con l’infinito, con le nature diverse di Ildegarda di Bingen nelle quali le differenze sottili insegnano la lingua universale nella quale parlarsi.

Ho un debito di riconoscenza verso Incantamenti (Vydia editore) a cura di Francesca Matteoni, Cristina Babino e Laura Di Corcia, per avermi permesso di continuare a riflettere su cosa sia poesia e cosa rappresenti la sua trasversalità nel mondo; sull’origine del mistero dal quale tuttə proveniamo, verso il quale andiamo attrattə da paura, desiderio, domanda.

Per avermi concesso, ancora una volta, di stare su Benjamín Labatut quando, in La pietra della follia (Adelphi, per la traduzione di Lisa Topi), scrive: dobbiamo imparare a vedere le cose sotto una luce diversa, perché la fiaccola della ragione non è più sufficiente a illuminare l’intricato labirinto che sta prendendo forma dentro di noi.

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