La prossima volta il fuoco – James Baldwin

jamesPer parlare di questione nera è necessario rivolgersi ai fondamentali, le radici che sostengono il pensiero che oggi anima le proteste del Black Lives Matter. Per essere dei buoni alleati della causa è necessario interrogarsi a fondo, mettersi in discussione e studiare la storia anche quando dà fastidio. Soprattutto quando, in quanto bianchi, ci costringe a guardare il cartellino col prezzo che altri hanno dovuto pagare per i nostri privilegi. La prossima volta il fuoco di James Baldwin (Fandango, traduzione di Attilio Veraldi) è uno di quei fondamentali e il cartellino ce lo strofina forte sugli occhi. La visione disincantata e cruda – oltre che magistralmente poetica – della questione interraziale parte dal divario umano tra bianchi e neri e arriva a una denuncia aperta agli Stati Uniti, il Paese delle grandi opportunità ma non per tutti, del sogno americano ma solo per i bianchi. E’ una riflessione dal linguaggio esplosivo e dalla potenza disturbante e neutralizza i tentativi di giustificazione, i “ma io…” che si sprecano sulle nostre labbra. Le parole di Baldwin sgocciolano sui nostri capi come lava e arrivano dirette, incuranti delle conseguenze. Più la vergogna, tanto meglio. La condizione di inferiorità dei neri è il frutto malato del suprematismo bianco e dell’immaginario costruito e dentro il quale il bianco è brillante e scaltro, mentre il nero è ottuso e servile. La gerarchia tra padroni e schiavi è presto fatta, così come è presto fatta la suddivisione eugenetica tra puri innocenti e sporchi colpevoli.

Il crimine, per esempio, per la prima volta divenne un fatto reale: non una possibilità, ma l’unica possibilità. In nessun caso bastava lavorare e risparimare denaro per sconfiggere il proprio destino; il lavoro non era mai pagato a sufficienza e, inoltre, il trattamento che la società riservava anche ai neri che più avevano successo nella vita dimostrava che per essere liberi occorresse qualcosa di più che un conto in banca. Serviva un’arma, una leva, un mezzo per fare paura. Eri tu quello che la polizia randellava e sbatteva dentro tutte le volte che poteva, su questo non c’erano dubbi; eri tu quello che gli altri – casalinghe, tassisti, avvocati, giudici, medici, salumieri – non avrebbero mai smesso, magari per un moto di generosità, di usare come uno sfogo alle proprie frustrazioni e alla propria ostilità. Nè senso civico nè amor cristiano avrebbero mai spinto nessuno di loro a trattarti come loro pretendevano di essere trattati; solo la paura della tua forza di vendicarti avrebbe potuto indurli a farlo, o a fingere di farlo, il che sarebbe stato (e sarebbe anche ora) già abbastanza.

Davanti a una struttura sociale così consolidata, il riconoscimento dei neri da parte dei bianchi si divarica fino a disintegrarsi nell’indifferenza, nell’odio, nell’assunto specista dell’inferiorità della razza. Il nero è nero e in quanto tale tutti i suoi sforzi per migliorare la propria vita sono vani e tutte le sue mortificazioni davanti ai bianchi sono necessarie; soprattutto necessarie a questi ultimi per rassicurarsi che l’Alterizzazione li vuole ancora al vertice più alto della gerarchia. Parliamo di una questione irriducibile tutt’oggi e che regredisce progressivamente allo stato barbarico della coscienza, cioè quello stato in cui tutto ciò che non sono io mi è estraneo (i bárbaros – letteralmente i balbuzienti – per i greci erano tutti coloro che non parlavano il greco) e chiunque non condivida il mio linguaggio e i miei simboli è straniero e io non lo riconosco.

Ho perciò un grandissimo rispetto per quell’esercito, mai da nessuno celebrato, di uomini e donne di colore che si trascinavano per i vicoli e bussavano alle porte di servizio dicendo “Sì, signore” e “No, signora” per poter comprare un tetto nuovo per la scuola, nuovi libri, un nuovo laboratorio di chimica, nuovi letti per i dormitori e nuovi dormitori. Certo non doveva essere piacevole dire “Sì, signore” e “No, signora”, ma l’educazione dei negri non era in cima alle priorità dell’America: quegli uomini e quelle donne sapevano che era un lavoro che andava fatto e lo faceva, mettendo a tacere ogni orgoglio. Difficile pensare a quegli uomini e a quelle donne come inferiori agli uomini e alle donne bianchi che a privano loro le porte di servizio. Difficile pensare che quegli uomini e quelle donne che dall’alba al tramonto crescevano i loro figli, mangiavano le loro verdure, urlavano le loro maledizioni, piangevano le loro lacrime, cantavano le loro canzoni e facevano il loro amore, fossero in alcun modo inferiori agli uomini e alle donne bianchi che aspettavano il buio della notte per strisciare a godersi quelle stesse gioie. […] sono tanti gli americani che ignorano persino la loro esistenza. Il motivo di tanta ignoranza è che il riconoscimento del ruolo che la gente di colore ha svolto, e svolge, nella vita americana rivelerebbe agli americani molte più cose dell’America di quanti essi desiderano conoscere.

Ma è ancora più aperta la questione dell’appartenenza, il rapporto tra i neri americani e il proprio Paese, il tributo che hanno versato e che non gli è stato riconosciuto. Che tuttora versano e non gli è riconosciuto. Oltre all’indifferenza, i neri americani devono quotidianamente sopportare lo sfruttamento, lo stigma e la persecuzione, la vessazione di essere di troppo, il luogo comune di essere criminali, il dato di fatto di essere poveri e senza salvezza. Un esempio lampante lo troviamo nel romanzo A casa della scrittrice afroamericana Toni Morrison, in cui si narra la storia di una famiglia spezzata, stritolata negli ingranaggi della povertà e dell’intolleranza, vittima dell’ingratitudine di un Paese che manda al macello i suoi figli nella guerra di Corea per poi voltargli le spalle nell’epoca dello splendore e del rilancio che sono stati gli anni Cinquanta.

Il trattamento riservato alla gente di colore durante la Seconda guerra mondiale segna, a mio giudizio, una svolta nei rapporti tra i neri americani e il loro paese. In poche parole, anche se in maniera un po’ semplicistica, si può dire che da allora un certo tipo di speranza svanì e, con essa, il rispetto nei confronti dei bianchi. Si cominciò ad avere pietà di loro, oppure a odiarli. Mettetevi nei panni di un uomo che indossa l’uniforme del suo paese, che sa di essere votato alla morte per difenderlo e che si sente chiamare “sporco negro” dai suoi commilitoni e dai suoi ufficiali; che si vede assegnati sempre i lavori più pesanti, più ingrati e più avvilenti; che sa che i soldati bianchi vanno in giro a dire agli europei che è un essere inferiore (per maggior tranquillità dell’attività sessuale del maschio americano); che la sera non va a ballare nei locali per militari dove vanno i soldati bianchi nè può bere nei bar frequentati da loro; che vede trattare i prigionieri di guerra tedeschi con più umanità rispetto a lui, e che, nonostante tutto, come essere umano si sente molto più libero in un paese straniero di quanto non sia mai stato in patria. Patria! La parola stessa acquista a questo punto un suono disperato e diabolico. Immaginate che cosa succede a questo cittadino quando, dopo tutto quello che ha patito, ritorna a casa: seguitelo mentre va in cerca di un lavoro e di un posto dove vovere; salite insieme a lui su un autobus e sedetevi nei posti riservati ai negri; leggete con i suoi occhi i cartelli che dicono “Bianchi” e “Gente di colore”, per non parlare di quelli su cui è scritto “Signore bianche” e “Donne di colore”; guardate negli occhi di sua moglie, guardate negli occhi di suo figlio; ascoltate, con le sue orecchie, i discorsi politici, nel Nord come nel Sud; immaginate di sentirvi dire che “bisogna aspettare”. E tutto questo avviene nel paese più libero e più ricco del mondo, in pieno ventesimo secolo.

Della creazione di un immaginario razziale, della giustificazione della violenza primigenia che ha fatto fiorire lo schiavismo, delle rotte commerciali disseminate di morti e malattie, dell’imposizione di credenze, usi e costumi occidentali che hanno anninentato le spiritualità e le tradizioni ancestrali, la Chiesa è corresponsabile sin da quando decise di mettersi mano nella mano con gli imperi coloniali e di fare del colonialismo un’appendice conveniente alle strategie per la diffusione delle più vaste campagne missionarie di evangelizzazione. Pur di diffondere il Vangelo, ha benedetto  la sanguinarietà e la logica usurpatrice delle conquiste, del tutto indifferente alle conseguenze che un nuovo dio e un nuovo re avrebbero avuto sui popoli colonizzati.

Quando giunse in Africa, il bianco aveva la Bibbia e l’africano la terra; ma ora che, contro voglia e a caro prezzo, il bianco deve separarsi dalla terra, l’africano è ancora alle prese con la Bibbia, per digerirla o rigurgitarla. La battaglia che dunque inizia adesso nel mondo è estremamente complessa e coinvolge il ruolo storico del cristianesimo nella sfera del potere – vale a dire, nella politica – e in quello della morale. Nella sfera del potere, i cristiani hanno agito con arroganza e crudeltà senza limiti […] La diffusione del Vangelo, indipendentemente dalle motivazioni, dall’integrità e dall’eroismo di alcuni missionari, servì da indispensabile pretesto per piantare una bandiera. Preti, monaci e insegnanti di prestavano a proteggere e santificare un potere esercitato spietatamente da gente che, in realtà, era sì in cerca di una città, ma non di quella celeste bensì da edificare con la fatica degli schiavi. La stessa chiesa cristiana – ripeto, a eccezione di alcuni suoi ministri – santificava e osannava le conquiste della bandiera, e incoraggiava, se non addirittura formulava la teoria secondo la quale la conquista e il conseguente benessere delle nazioni occidentali, era prova del favore di Dio.

Eppure, la rabbia di Baldwin per l’oppressione del suo popolo non riesce a schiacciare nè a scardinare lo sguardo compassionevole con cui continua a guardare gli esseri umani. Bianchi compresi. Soprattutto loro, a dispetto dei Black Muslims i quali sperimentò di sfuggita e di cui non condivise la deriva violenta e il pensiero militarista dentro il cui seno crebbe e si radicalizzò Malcom X.

Quando ci veniva detto di amare tutti, credevo che ci si riferisse davvero a tutti. Invece non era così. Ci si riferiva soltanto a coloro che credevano a ciò in cui credevamo noi, e non valeva mai per i bianchi. Una volta, per esempio, un ministro mi disse che mai, per nessuna ragione, su un mezzo pubblico avrei dovuto offrire il mio posto a una donna bianca: i bianchi non l’offrivano mai a una nera. Non potevo smentirlo: era verissimo. Tuttavia, quale era lo scopo della mia personale salvezza se non mi era concesso di comportarmi con amore verso gli altri, senza tener conto di come essi si comportavano con me? Di ciò che gli altri facevano, delle loro azioni, erano responsabili loro stessi e ne avrebbero risposto quando fosse suonata la tromba del giudizio. Delle mie azioni, invece, la responsabilità era mia, e ne avrei risposto io – a meno che, s’intende, in cielo non esistessero particolari dispense per i neri ottenebrati, destinati a essere giudicati in maniera diversa dagli altri esseri umani o dagli angeli.

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